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19 Gen 2021

Brand: la fedeltà è un ideale

Per il Magazine del Gruppo Unipol, la giornalista Elisa Venco intervista Gaetano Grizzanti per un articolo sul tema della fedeltà di marca nell’era del Covid.

 

II nuovi consumatori non si accontentano più di un marchio forte e di prezzi concorrenziali. Adesso conta di più la prossimità e la condivisione di valori. Le iniziative Gruppo Unipol.

​Il Covid, ma ancora di più il lockdown di marzo, hanno messo alla prova la nostra pazienza, la nostra economia, il nostro senso di comunità e infine la nostra fedeltà ai marchi preferiti. È ciò che attestano due studi realizzati dopo la prima ondata: uno risalente allo scorso luglio ed elaborato dalla società di comunicazione Ketchum, secondo il quale il 45% dei consumatori americani ha modificato le proprie preferenze di marca durante i mesi di pandemia, con l’intenzione di mantenere le nuove abitudini di acquisto. E un secondo firmato McKinsey, datato agosto 2020, che ha elevato il numero degli acquirenti infedeli ben al 75%.

Secondo queste ricerche, oltre che dalla scarsa disponibilità del prodotto prediletto sugli scaffali “nel momento del bisogno”, il cambiamento è motivato dal prezzo di un acquisto abituale (che per chi si ritrova in difficoltà può improvvisamente essere percepito come troppo elevato), dalla difficoltà di ordinarlo tramite e-commerce e dalla scomodità: nelle fasi di emergenza, un’opzione «che evita di visitare più di un punto di vendita diventa preferibile alla ricognizione in più negozi per cogliere le migliori offerte sui prodotti di marca», ha riassunto in un’intervista al magazine Fortune Doug Bowman, professore di marketing presso la Goizueta Business School della Emory University.

Tuttavia, alcuni esperti del settore, come Robert Passikoff, presidente della società di consulenza americana Brand Keys, prevedono che i consumatori riprenderanno le vecchie abitudini appena chiusa l’emergenza. Chi ha ragione, le ricerche che sottolineano la disaffezione dei clienti o il professor Passikoff?

«La pandemia ha enfatizzato la distanza tra le aziende che hanno definito correttamente il proprio brand, che pertanto non soffrono dell’allontanamento della clientela, e quelle che non lo hanno fatto. – premette Gaetano Grizzanti, autore di “Brand Identikit – Trasformare un marchio in una marca” (Fausto Lupetti editore), fondatore della società UNIVISUAL Brand Consulting e Perito del Tribunale di Milano in materia di Trademark – Quelle che meglio resistono alle crisi, infatti, hanno saputo edificare un’identità di marca in qualità di entità personificata, il cui valore intangibile fa leva sulla sintonia con il consumatore, a prescindere dal prodotto che le è correlato».

La questione si fa tecnica: «Per concepire una marca, specialmente di un’azienda già esistente, è necessario attivare una trasposizione valoriale dalle componenti razionali, riferite all’azienda o al prodotto/servizio, a componenti inconsce, riferite a un modo di essere e di pensare, comprendendo che un brand non è l’azienda né il prodotto/servizio offerto. Un errore comune è imputare alla “marca” errori o azioni tipiche di un’azienda. Sicuramente c’è una connessione tra le azioni dell’impresa (comportamento, politiche di prezzo, etica ecc.) e il percepito sul brand, ma se il marchio si comporta da marca non ci saranno ripercussioni negative. – continua Grizzanti – Ricordo quando la Mercedes ha avuto problemi con il modello Classe A: la caratterizzazione del brand era talmente radicata sui valori di qualità e serietà che il consumatore, come si fa con un amico, ne è rimasto sorpreso, ma l’ha “perdonata”, sicuro che l’azienda avrebbe risolto il problema».

Ciò chiarito, per converso è facile notare come tante aziende non siano arrivate a questo grado di sofisticazione del proprio brand per creare un valore aggiunto percepito al prodotto e differenziarsi dai competitor. Per esempio, un brand di prodotti di lusso, il cui valore precipuo è genericamente quello ostentativo, di status symbol, rischia nel tempo di perdere quelle specificità capaci di imporlo nel “territorio mentale” del consumatore perché, banalmente, ci saranno sempre nuovi prodotti di alta gamma. E, a parità di esclusività percepita del prodotto, è il carattere specifico del brand, la sua unicità rispetto agi altri, che fa la differenza» prosegue Grizzanti. «Per sviluppare un legame con una marca un consumatore deve avvertire un sentimento di sintonia e di similitudine valoriale, perché non vuole sentirsi una “vittima commerciale” predestinata. Se questa “affinità ideale” avviene, qualunque operazione di un’azienda, coerente con il brand, verrà premiata dal cliente con la riconferma della sua scelta».

In questo senso, un modello virtuoso di adattamento alla crisi è prefigurato da Hyundai, un marchio che, a dire del suo vicepresidente per l’Europa Andreas-Christoph Hofmann, è caratterizzato soprattutto dall’ottimo rapporto qualità-prezzo. Considerando le temporanee incertezze lavorative, la società ha dato agli acquirenti del modello Genesis la possibilità di sospendere i pagamenti fino a sei mesi nel caso si ritrovino inaspettatamente disoccupati a causa della pandemia. È un modo per farsi percepire empatici dai clienti senza rinnegare la natura economicamente vantaggiosa della marca.

Ma anche la formula per avvicinarsi ai consumatori in difficoltà, specialmente in circostanze straordinarie come quelle in corso, va modulata con accortezza: «se l’azione promozionale è svolta coerentemente con il percepito caratteriale della marca stessa, l’iniziativa premia; altrimenti la “buona azione” apparirà estemporanea, verrà dimenticata o rischierà addirittura di ripercuotersi sulla marca stessa» precisa Grizzanti.

Di recente Walmart negli Usa e Tesco nel Regno Unito, riconosciuti come brand con un carattere di prossimità, hanno lanciato una carta di fedeltà “Plus” per ottenere sconti del 10% su tutta la merce, con il risultato, solo durante la fase di lancio, di un incremento dello scontrino medio di oltre 10 euro. Un’altra strategia di vicinanza raccomandata dalla società di consulenza McKinsey per la fase “next normal” suggerisce di espandere le connessioni con i consumatori sostenendo le comunità e le attività locali. Negli Usa Boll & Branch, azienda produttrice di materassi, ha donato quasi 8000 cuscini e materassi ai presidi medici di emergenza e ai rifugi per senza tetto di Pennsylvania e Florida durante la pandemia. Altri hanno prestato la propria rete di consegne per supportare le imprese locali, o hanno sponsorizzato i centri delle varie comunità. «L’erosione del senso di sicurezza delle persone legata alla pandemia – sigla un report di Accenture – ha reso la fiducia un valore più importante che mai. Il Covid ha fatto emergere nuove verità del comportamento umano che vanno comprese e accolte. Ne consegue la necessità di azioni che moltiplichino la fiducia in modo rapido e credibile, cambiando la natura di ciò che definiamo come prodotti e servizi premium».

Coniugare la dimensione valoriale del brand con il core business, portando concreta utilità alle persone, rafforza la credibilità delle aziende e aumenta la fiducia nella loro capacità di restare connessi con la realtà vissuta quotidianamente dalla collettività. Per intenderci, le attività di charity sono fondamentali nei momenti di crisi come quelli vissuti con la pandemia e garantiscono il finanziamento di servizi altrimenti difficili da erogare, ma in termini di memorabilità sono meno efficaci. Le iniziative concepite nel solco dell’attività ordinaria dell’impresa che si mostrano coerenti con la promessa fondante del brand riescono invece a capitalizzare l’impegno economico in patrimonio reputazionale.

​Insomma, dopo la pandemia, il valore aggiunto di un brand non consiste più solo nella qualità percepita del prodotto o nell’abbassamento dei prezzi, bensì nella condivisione di un ideale, nella costruzione di una comunità di individui sicuri, connessi e determinati a superare insieme le difficoltà.

 

Elisa Venco

www.changes.unipol.it

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