4 Mag 2016
di Claudia Chiari
Il 2016 segna i trent’anni di esperienza della società guidata dal suo fondatore Gaetano Grizzanti, con sede a Milano e filiale a New York. Finanza & Diritto ne ha parlato proprio con lui, il prof. Gaetano Grizzanti, punto di riferimento nella consulenza sul branding, nonché CEO di Univisual Brand Identity.
Quanto conta il Made in Italy nel processo progettuale come valore aggiunto del vostro modus operandi?
«Quando si parla di Made in Italy, e l’attività di Univisual lo è a tutti gli effetti, nel mondo si pensa subito, oltre alla moda, al design. Fattore sicuramente presente nella costruzione di una brand identity, ma solo come ultimo anello di un processo. Ritengo quindi che il Made in Italy non si riferisca solo agli aspetti della creatività, ma a un approccio di ricerca di soluzioni innovative che gli italiani hanno saputo applicare in molteplici settori industriali, pensando fuori dagli schemi.
Il brand riqualifica un’azienda con attributi non razionali, seguendo dunque un percorso chiave nell’era della percezione, dove la realtà conta ma non è poi così discriminante. Prescinde dunque dal tipo di azienda o settore merceologico, facendo invece leva su aspetti reconditi di ciascun individuo affinché faccia propri i valori di un prodotto attraverso un personale processo mentale.»
Come si è evoluta la cultura del branding in Italia e nel mondo? Come si connota una brand identity di successo?
«Oggi, contrariamente a prima, il brand è finalmente visto come un asset primario. Un’evoluzione rilevante, perché determina la valutazione della marca come fattore critico di successo. Prossimo passo: che questa nuova cultura si rifletta nella struttura aziendale. Punto fondamentale affinché un brand riesca nel suo intento è infatti la definizione del suo compito operativo all’interno di un’organizzazione, proprio come se fosse un collega di lavoro. Naturalmente il brand deve essere “inquadrato” per quelle che sono le sue potenzialità, affinché non sia relegato al mero ruolo di identificare e rendere riconoscibile l’azienda.»
Il suo libro “Brand Identikit”, edito da Fausto Lupetti Editore, è il primo dedicato specificamente alla brand identity, un vero e proprio vademecum culturale sull’identità di marca e d’impresa. A quale tipo di interlocutore si rivolge?
«Pubblicato cinque anni fa, è un libro frutto di 25 anni di studi e 5 di operatività. L’ho fortemente voluto per mettere nero su bianco i principi e i paradigmi che costituiscono i tratti salienti di una brand identity, divulgando la cultura di questa disciplina per limitarne interpretazione e soggettività. Parla agli operatori di settore, ma anche direttamente all’imprenditore che intenda evolvere il proprio percorso costruendo un brand, a prescindere dal prodotto venduto.»
Come si inserisce la strategia di branding di un’azienda in un frangente economico in cui gli investimenti pubblicitari subiscono spesso costrizioni dovute alla crisi?
«Proprio grazie a periodi di contingenza piuttosto lunghi, che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, le imprese si sono trovate nell’impossibilità di far fronte a investimenti pubblicitari importanti. Il lato positivo di questa situazione è che il management, nel dover ponderare ogni piccola spesa, si sono fermati per capire come il brand potesse dare il suo contributo, oltre alla notorietà, sfruttando le sue innate caratteristiche e intrinseche capacità di interazione.
La pubblicità crea notorietà, ma i vantaggi si hanno a patto che il brand funzioni in termini di coerenza e posizionamento. Inoltre, personalmente, io non parlerei di crisi, quanto piuttosto di cambiamento strutturale, proprio come se fossimo in una nuova era glaciale.
Siamo chiamati ad affrontare un processo evolutivo, intervenendo sul proprio DNA, pena l’estinzione o l’arrancare rispetto alle nuove specie che meglio si adattano a uno scenario del tutto nuovo.»