Notizie

30 Nov 2010

Il branding parla italiano

Mediaforum, settimanale di marketing e comunicazione, dedica la copertina al Ceo di Univisual Gaetano Grizzanti.

Incontriamo Gaetano Grizzanti, fondatore di Univisual, società competence-leader nella consulenza per l’identità di marca che, nel 2011, compirà 15 anni di vita. Una conversazione che basa il proprio focus sulla carriera di chi oggi è un punto di riferimento per la cultura del branding italiano.

Tra i massimi esperti del settore, Gaetano Grizzanti, quasi quarantacinquenne, milanese, muove i primi passi professionali 25 anni fa. Raccontarlo non è cosa facile, anche se, al contrario intervistarlo è stato semplice, perché è persona disponibile che ama parlare in modo molto preciso delle cose che fa.

Iniziamo con il dire che dal 1988 affianca all’attività professionale quella dell’insegnamento, tenendo oggi corsi e seminari formativi presso scuole e università, oltre che conferenze per organizzazioni di categoria ed eventi di management d’impresa. Nel 1996 fonda a Milano Univisual, uno studio di consulenza specializzato nell’identità di marca e d’impresa, che oggi lavora per importanti marchi italiani e internazionali.

E’ membro del Council di “Superbrands” (organizzazione internazionale che valuta e premia i marchi di maggior successo); fa parte del Consiglio Direttivo Nazionale di Aiap, l’Associazione italiana del design per la comunicazione e scrive proprio su questo giornale l’unica rubrica sulla brand identity nel nostro Paese.

Negli ultimi anni riceve tutti i riconoscimenti del settore (Grand Prix Brand Identity, Targa d’Oro, Agorà d’Oro, Mediastars), oltre a una nomination al Compasso d’Oro nel 2003. Grazie alle sue teorie sul branding e la sua esperienza di docente “pioniere” della materia, nel 2007 è stato incaricato, sulla base di un piano governativo, di condurre come relatore  un corso a Taipei per lo sviluppo delle imprese di Taiwan.

La professionalità di Grizzanti è il risultato di un lungo percorso dettato dalle due anime, creativa e razionale (avendo fatto sia studi d’arte e di grafica sia di matematica), che da sempre hanno fatto da linea guida del suo modo di essere. Le due anime si sono mescolate perfettamente l’una con l’altra, in un connubio così totale da cancellare e non ritrovare più la giuntura che le ha unite.

Come nasce il suo impegno per il branding e l’identità di marca?
È il frutto congiunto tra il mio modo “sistemico” di approcciare alle cose e la mia estrazione di progettista. L’attività di libero professionista è iniziata nel 1988, lavorando come designer di comunicazione, dopo qualche esperienza come visualizer per la pubblicità e illustratore umoristico. Alla fine degli anni Novanta mi sono accorto che l’approccio che avevo verso il progetto stava orientandosi verso un particolare modus operandi che, grazie a ricerche personali e all’esperienza sul campo che avevo fatto fino a quel momento, mi avevano portato a costruire una figura professionale che ancora oggi definirei pioneristica: quella del consulente di branding.

Poi l’idea è divenuta professione?
Verso la metà degli anni Novanta era in atto un forte cambiamento nel mercato – e non solo dal punto di vista tecnico e operativo – a causa dell’utilizzo del computer. L’approccio legato al modo di lavorare del designer o del creativo di comunicazione in genere avrebbe dovuto evolversi, perché le imprese da lì a poco avrebbero fatto fatica a sopravvivere se avessero continuato a basare la propria strategia di business solo sul prodotto. Quindi ho sentito la necessità di evolvere quella che era la mia cultura professionale facendo studi e ricerche sul branding, disciplina di natura anglosassone, sviluppando però una specifica elaborazione per contestualizzare questa materia in quello che è il tessuto economico e finanziario del nostro Paese. Così ho chiuso il vecchio studio e nel 1996 ho costituito Univisual.

Che cos’è Univisual?
Per quei tempi, probabilmente, la prima realtà professionale che ha iniziato a sostenere una cultura esclusiva sulla brand identity.
Con la difficoltà, all’inizio, di far comprendere ai clienti un tale approccio, così innovativo e proiettato al futuro. Mi sono trovato quindi a dover operare attraverso un sistema “pedagogico” nei confronti del management, per integrare la loro cultura ai dettami del nuovo modo di pensare. Un’operazione difficile, ma con risultati che oggi, guardandomi indietro, reputo eccezionali. Siamo riusciti a realizzare progetti che hanno ottenuto sia riconoscimenti dal mercato, rispettivi di ogni cliente, sia premi tecnici del settore. A tal proposito, solo per dare un’idea, al “Grand Prix Brand Identity” abbiamo vinto il primo premio nella sezione “Corporale Identity” per quattro anni di seguito, a partire dall’edizione 2004.

Com’è cambiata in questi anni?
Oggi ha visto realizzarsi tutta una serie di scenari che avevo annunciato e che ci portano così a festeggiare 15 anni di attività, nonostante sia stato un periodo molto ricco di cambiamenti.
La natura originale di Univisual è rimasta invariata, è sempre una struttura specializzata nella brand identity che però oggi ha un posizionamento molto preciso: è l’unica realtà italiana indipendente dedicata esclusivamente all’azienda italiana – o internazionale ma di matrice italiana – leader nel proprio comparto merceologico.

Che cos’è la brand identity?
È uno strumento del branding, dove per branding si intende la mentalità di business di un’organizzazione che basa la propria strategia non solo sul prodotto, ma sull’affermazione della marca.
La brand identity è l’insieme degli elementi connotativi che fungono da interfaccia identificativa e che codificano la personalità di una marca, sia che essa rappresenti un’azienda, un prodotto, un servizio, un partito politico, una città, una persona, un evento, una religione.

Quali gli interventi più degni di nota realizzati da Univisual?
Posso ricordare la normalizzazione dei marchi Bancomat, il rebranding di Salmoiraghi & Viganò, il packaging Pampers-BabyDry o l’ultimo svolto per il Gruppo Banca Popolare di Milano ma, facendo molta consulenza, i nostri interventi non sempre confluiscono in un progetto di design, quindi non sempre sono visibili. Tra i nostri clienti figurano anche Agos, Bayer, Bertolli, Comune di Milano, Lindt, Pampers, Ras, Rcs, Spontex, Telecom Italia, Telethon, UniCredit Banca, Unilever, VenetoBanca.
Ma gli interventi più importanti sono quelli svolti per aziende che grazie a un marchio rivoluzionario sono riuscite a fare il grande salto verso una vera strategia di branding.

Quale messaggio invierebbe a chi approccia la brand identity?
A quelle aziende italiane che hanno una forte componente creativa e innovativa, come mentalità d’impresa, suggerirei di non considerare il branding come un qualcosa banalmente legato a un logo o all’immagine, bensì come una vera soluzione per migliorare le proprie performance di business.

Brand come CocaCola e Nike hanno avuto tanto successo. È più importante il prodotto o come questo viene comunicato?
Tutto è importante, non esiste un brand che si possa definire tale se dietro non vi è un prodotto sicuro. Facciamo una doverosa premessa: la disciplina del branding è definibile perché abbiamo “studiato” la vita dei brand dell’ultimo secolo, potendo quindi stabilire dei paradigmi. Ma oggi chi fa comunicazione solo sulla caratteristica intrinseca e funzionale del prodotto investe male i suoi soldi, a meno che non sia un’azienda che abbia inventato un prodotto rivoluzionario. Però, anche in questo caso, se qualcuno dovesse inventare un prodotto unico al mondo, il mio consiglio è comunque di porsi in un’ottica brandoriented, forse non per averne un vantaggio competitivo oggi, ma per sopravvivere domani e preservare un valore che altri menti rischierebbe di perdersi nel tempo.

Di che marca avrebbe voluto essere l’artefice?
Una precisazione: c’è una sostanziale differenza di base tra marca e marchio, la marca è un’entità concettuale portatrice di un insieme di valori, mentre il marchio è il codice visivo che la identifica. Possiamo, però, dire che entrambi sono dispositivi che devono essere creati strategicamente a tavolino. Fatta questa premessa, mi sarebbe piaciuto realizzare il marchio di Apple: perché quanto al branding è un caso emblematico, c’è un perfetto collegamento tra marchio e marca. L’azienda, la casa che costruisce computer, è stata chiamata “mela” con l’idea di essere innovativi e anticonformisti, il marchio della mela morsicata dà l’idea di essere fuori dal coro, come se essere innovativi fosse un peccato.

Qual è il suo libro preferito?
Mi è rimasto nel cuore è “Gli indifferenti”, di Alberto Moravia, letto in gioventù. Mi è ancora in mente perché Moravia in quel libro ha fatto un buon lavoro di introspezione del genere umano. Poi, un altro libro a cui tengo molto, è quello che sto scrivendo io. Ovviamente tratta di brand identity: si intitola “Brand Identikit”, come la mia rubrica. Il libro, che penso uscirà nel 2011, sarà un giusto equilibrio tra un prontuario culturale e un manuale operativo, comunque pragmatico, e offrirà un valido strumento per “trasformare un marchio in una marca”.  Per ora non posso aggiungere altro.

D’accordo. Tornando ai marchi, quale vorrebbe rinnovare?
Mi piacerebbe lavorare al marchio della Juventus. Sono bianconero fino al midollo, oggi abbiamo anche un’immagine più simpatica. E poi bianco e nero sono la sintesi additiva e sottrattiva dello scibile cromatico umano!

Se non fosse Gaetano Grizzanti, chi vorrebbe essere?
Mi piace molto il mio lavoro, ma al tempo stesso anche la mia ricerca artistica e culturale. Mi piace pensare di vivere come qualsiasi uomo che con coerenza ha lavorato tutta la vita per ciò in cui credeva.

I suoi punti di riferimento?
Professionalmente Bob Noorda; nella vita, il mio modello è mio padre.

Cosa le è rimasto di Taiwan?
Mi ha colpito molto come il Paese conosciuto nel mondo per il suo enorme potere produttivo, con il famoso “made in Taiwan”, abbia avviato un progetto decennale per lo sviluppo delle imprese, improntato sull’importanza del brand. E’ un segnale da considerare, perché se Taiwan impara a costruire i brand, l’Italia e i Paesi occidentali si devono preoccupare.

Quanto ha influito nella sua professione l’insegnamento?
L’attività di docenza ha influito tanto nella mia crescita, e non solo professionale. Insegnando ho imparato molto, perché dovevo trasmettere non solo nozioni tecniche, ma anche una metodologia per ogni singolo allievo di creazione ed elaborazione dei contenuti rispetto a un proprio modo di pensare. Questa è la difficoltà quando si insegna una disciplina che ha alla base una forte componente creativa. È stato più facile con la matematica, che ho insegnato per due anni.

Condividi su:
FacebookTwitterEmailWhatsAppLinkedIn

UNA STRATEGIA SU MISURA

Entra in contatto con Univisual

CONTATTACI