Nel 2020 non solo si è registrato lo storico superamento del digitale (41,9%) rispetto alla tv (41,6%) quale canale privilegiato ma, cosa più rilevante, durante il lockdown la creatività di quasi un terzo dei brand (29% nel comparto FMCG e il 33% nella Distribuzione) faceva riferimento al problema.
Senza troppe allusioni esplicite, i messaggi che accomunavano la comunicazione delle aziende erano estremamente empatici – Ti siamo vicini; Torneremo ad abbracciarci; Ripartiamo insieme; Torniamo a vivere – utilizzando la forma ormai sdoganata dei social-network.
Non si ha nulla contro lo stile “sentimentale” – ben venga una relazione più umana, prendendo atto che il brand va considerato come una personificazione di un’impresa o di un prodotto – ma, a distanza, questa modalità espressiva continua a imperversare senza preoccuparsi della necessità di distinguersi.
Risulta quindi utile, oggi, analizzare quanto questa tendenza di massificazione dei messaggi possa portare come conseguenza a un’omologazione dell’identità di ogni singolo brand, annullando quell’unicità che, di fatto, rende marca un marchio.
Non è in discussione il fatto che le aziende – rispetto a quello che stava succedendo, nel dover essere comunque presenti sul mercato in un periodo così imprevedibile e difficile – abbiano dovuto dimensionare la pubblicità più sul lato commerciale e puntare a un approccio “positivo”, rispondendo con sensibilità a un bisogno di normalità, essenziale per guardare con proiezione verso il futuro.
Purtroppo però questo orientamento si è trasformato in un’iperbole sull’ottimismo al limite della leziosità, rendendo noioso non solo il contenuto della comunicazione, a volte stucchevole, ma uniformando il “linguaggio di marca”.
Il rischio, attraverso questa tipologia di tone-of-voice, è di mettere in discussione e invalidare uno dei principali paradigmi della brand-identity: l’unicità, appunto, minando peraltro anche il percepito di autenticità, non per forza da associare al sentimentalismo.
Inoltre, dal “secondo” lockdown in poi, un’altra tendenza che è stata rilevata è quella di concentrare le campagne sul fattore prezzo – purtroppo tipico in tempi di crisi – facendo leva sull’economicità e, opportunisticamente, sulla componente “etica” dell’azienda.
Per quanto sia apprezzabile, da una parte però è un po’ come ammettere che durante l’era pre-Covid si approfittava del consumatore (addio etica) e, dall’altra, si presta ancora una volta il fianco al pericolo di trasmettere un’immagine indifferenziata di sé.
È arrivato il momento di indagare sulla stima dei danni arrecati alla propria marca, dal punto di vista dell’identità, consapevoli che per un asset intangibile non sia semplice effettuare questo genere di valutazione.
Il primo passo da svolgere è un’attività di rilevazione del percepito della marca in termini di personality, mettendo a confronto quello “pre” e quello “post” crisi. E poi ripetere la stessa rilevazione sui marchi dei principali brand competitor.
Queste tecniche valgono per qualsiasi tipologia di crisi.
Alla luce di quanto emergerà, si avrà la possibilità di analizzare non solo eventuali differenze – tra il prima e il dopo – ma anche di verificare se si è generato qualche fattore di disturbo capace di creare una distonia caratteriale o una possibile “crisi di identità”; e allo stesso tempo esaminare sempre la comparazione nei confronti della concorrenza.
Non sempre i classici strumenti delle ricerche di mercato sono idonei allo scopo, perché è fondamentale distinguere ciò che il brand è, da ciò che il brand fa e, in generale, affrontare la cosa sempre con una certa dose di autocritica.
Insomma, lo scopo finale è quello di riappropriarsi della propria unicità e, a seguito di un’indagine appropriata, si potrà individuare dove intervenire, magari cogliendo l’occasione di definire una brand-identity come non è eventualmente mai stato fatto prima e, contestualmente, individuare le linee guida con cui attivare una comunicazione “brand-oriented” e non “product-oriented”, preparandosi alle crisi successive.
Quanto sopra riguarda qualsiasi tipo di impresa: i brand iconici, dove l’awareness non è mai in discussione e che, dall’alto del loro potere mediatico, avrebbero potuto permettersi di avere una voce ancor più fuori dal coro; ma anche le aziende B2B che, preoccupate di rassicurare il proprio pubblico, hanno sì comunicato – forse più di quanto avessero mai fatto prima della pandemia – ma con messaggi canonici e omologati, perdendo un’occasione rara di capitalizzare l’identità d’impresa e il proprio marchio, a vantaggio di una ipotetica notorietà.
Alla luce di quanto si vive durante una crisi, si ha a disposizione un periodo molto particolare da studiare, dal punto di vista del branding e si è imparato che è meglio fermare l’impeto alla sperimentazione (disperata) di comunicare e agire con più raziocinio, attivando un processo strategico grazie a informazioni prima non disponibili, affinché un’azienda sappia in futuro preservare quel fattore critico di successo che è il brand.
(*) Fonte: Nielsen, Ad Intel – New Creative Service
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