Il problema va trattato sotto due diverse angolazioni: quella giuridica e naturalmente quella del branding. I fattori infatti sono numerosi, dalla prelazione di utilizzo in caso di omonimia fino alle variabili sulla pertinenza di una strategia di business basata su un naming patronimico.
Andando per ordine, prima è necessario distinguere in termini legali, da una parte, il nome di una persona rispetto a un nome utilizzato come marchio e, dall’altra, la differenza che c’è tra i due status di diritto, evidenziando che il marchio è un “bene patrimoniale” mentre un nome proprio è un “bene personale”.
Ogni individuo, per essere riconosciuto dagli altri individui e dalla Legge, deve avere un nome e tale condizione è definita e tutelata dal Codice Civile. Si pensi per esempio ai cosiddetti “furti di identità”, dove l’uso del nome d’altri (diverso dal proprio, quindi) può essere considerato come una condotta criminale punibile da ordinamenti specifici.
Il nome e cognome di un essere umano rappresentano perciò un diritto inalienabile ma, di per sé, non hanno un valore finanziario né costituiscono un asset commerciale. Cioè, non basta scrivere il proprio nome su un biglietto da visita per essere definito un “marchio di fabbrica”.
A tal proposito è infatti necessario associare ufficialmente il nome a una attività economica e, cosa fondamentale, a uno specifico prodotto o servizio. Questa attribuzione deve avvenire attraverso la procedura [si veda il Codice della Proprietà Industriale e tutte le variabili internazionali] che traspone il proprio cognome (o nome e cognome) in “segno distintivo”, proteggibile come Trademark.
In questo modo una persona, grazie a un unico “elemento di identità”, godrà sia del “Diritto al Nome” sia del “Diritto di Marchio”.
Il motivo principale per sfruttare un naming patronimico è quello di “personificare” un’azienda, con il vantaggio di generare un percepito di trasparenza. «Mettendoci la faccia» l’utente è rassicurato dal fatto che dietro al prodotto ci sia un individuo che funge da garante, umanizzando il brand e aiutando il processo di appartenenza.
Ma la cosa più importante nel decidere di utilizzare un naming in forma patronimica – per la strategia di identità di un’impresa – è la conoscenza dei pro e contro. Considerando innanzitutto le componenti di registrazione di un nome come marchio, prima di procedere alla domanda agli organismi preposti è consigliabile far svolgere delle “ricerche di anteriorità”, per verificare che il proprio nome non sia già utilizzato nella stessa “classe merceologica” di deposito o da un brand sufficientemente “notorio”.
Purtroppo, in tali casi, si incorrerebbe in un quasi sicuro contenzioso, dalle scarse possibilità di successo. Infatti il diritto di usare un determinato cognome come marchio spetta a chi per primo lo registri e lo utilizzi (entro 5 anni dalla domanda di deposito) per contraddistinguere un predeterminato prodotto o servizio.
Un altro vantaggio di un naming patronimico, a differenza di uno “descrittivo” (di un ambito merceologico), è quello di apparire generico e quindi idoneo per prodotti e servizi diversi tra loro.
Naturalmente ci sono anche degli svantaggi nell’uso di un marchio di genere patronimico, come per esempio il rischio facile di omonimie (esempio: Ferrari auto; Ferrari Spumante; Ferrari Trattori) o possibili limiti a un processo di internazionalizzazione: potrebbe accadere che il proprio nome abbia una semantica (assonanza, pronuncia, significato, evocazioni ecc.) non pertinente per alcuni paesi nel mondo.
Un’altra criticità da considerare è insita nell’eventuale futura vendita dell’impresa in cui giocoforza avviene anche la cessione del marchio: il nome non apparterrà più al titolare ma, in quanto entità giuridica, subirà un passaggio di proprietà.
Un caso noto ed emblematico è quello dei ristoranti americani McDonald, ben raccontato nel film “The Founder” (di J.L. Hancock, 2016).
Un’altra potenziale minaccia è legata alla reputazione dell’individuo il cui nome è utilizzato per identificare un’impresa: un suo cattivo comportamento può condizionare il giudizio dei consumatori, creando un grave danno al brand, sia che il marchio venga ceduto sia che l’individuo operi ancora in azienda.
Non essendo possibile argomentare il tema di questo articolo in poche righe, è bene sempre consultare un avvocato specializzato in materia di Proprietà Industriale per esaurire tutti gli aspetti che, in particolar modo, incidono in caso di contenzioso tra due parti. In certe situazioni è infatti un Giudice che ha il difficile compito di analizzare la “similarità” tra due marchi (con la consulenza di un Perito iscritto all’Albo) chiarendo l’applicazione dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza.
E i casi che si susseguono nel tempo costituiscono una pratica spesso usata per dimostrare le proprie o le altrui motivazioni.
Si veda per esempio quanto accaduto a Chiara Ferragni nel 2019: in prima istanza le era stato rigettato l’uso del marchio ma poi, a seguito di un appello, la Commissione cambiò opinione dando ragione alla nota influencer italiana.
Questo per dire che le variabili sono insidiose e nell’optare sul nome proprio come marchio bisogna seguire la massima scrupolosità e ridurre l’insorgere di problemi dopo aver avviato l’attività di un’impresa.
Un nome di persona effettivamente può essere più efficace di un altro tipo di marchio: è suggestivo, memorizzabile e comunica un’immagine professionale. L’incognita maggiore però è sulle omonimie, correndo il rischio minimo di cadere nell’anonimato e con il pericolo reale di incappare in cause legali in cui viene messo in discussione il diritto all’esclusiva.
Nel verificarsi tale scenario, il Codice della Proprietà Industriale, indicativamente, dà prevalenza del diritto di marchio (a vantaggio del primo che lo registri) sul diritto al nome. L’importante è sia non ledere la nomea o il decoro della persona che ha il diritto di portare quel nome, sia che il nome stesso non appartenga a un marchio “notorio”, cioè molto conosciuto anche se non opera nel proprio mercato (settore e/o territorio) – come Coca-Cola, Rolex o Apple – a meno di un consenso accordato dal titolare del brand.
Non sempre si immagina che un’azienda possa adottare un cognome che non corrisponda necessariamente a quello del proprietario o del fondatore. Il fatto che il nome utilizzato sia il proprio o un altro, per la Legge non fa differenza, le procedure e le direttive sono le stesse.
Si potrebbe dire che “rubare” il nome di un’altra persona e utilizzarlo come marchio non sia un reato. Effettivamente è così. Anche se nella maggior parte dei casi avviene in buona fede, se si conosce la persona a cui si “ruba” il nome, l’importante come detto è non ledere “il buon nome” della persona stessa e che, quella persona, non stai utilizzando il proprio nome come marchio nello stesso settore di mercato.
Alla luce di questa ulteriore possibilità, ciò che incide alla fine dei conti è la componente di branding, risultando fondamentale scegliere un nome con caratteristiche idonee alla marca che dovrà identificare, come per esempio: un nome d’assonanza italiana per evocare italianità; un nome dolce per evocare delicatezza; un nome al cui interno ci sia la lettera ‘X’ per evocare tecnologia ecc.
Pertanto – se la miglior strategia per il proprio business è l’uso di un marchio patronimico – una opzione creativa potrebbe essere anche quella di concepire un naming totalmente inventato, credibile per identificare una o più persone.
Le composizioni formali migliori possono essere:
– Cognome SpA
– Nome Cognome SpA
– Cognome & Cognome SpA
– Cognome–Cognome SpA
Un esempio è il gelato Häagen-Dazs, ideato dai fondatori Reuben Mattus e la moglie Rose con l’intento di trasmettere sensazioni di freddo (associabile alla natura del prodotto) attraverso un nome che sembri identificare i cognomi di due autorevoli persone provenienti da un territorio nordico.
In merito ai nomi composti da due cognomi (o da più elementi) è bene valutare il rischio di prevalenza che potrebbe avere l’uno rispetto all’altro, per ridurre il rischio di identificare il brand solo con il primo nome che appare nella sequenza. Come nel caso Harley-Davidson, dove a volte ci si riferisce alle mitiche motociclette citando solo il primo nome.
Per l’analisi della compatibilità tra due cognomi, in un naming patronimico composto, si analizzi innanzitutto il carattere intrinseco dei due termini, affinché l’uno non prevalga l’altro per forza “segnica” (la parola Harley risulta più facile e originale di Davidson).
Poi si valuti la compatibilità fonetica tra i due cognomi (lunghezza, cadenza, pronuncia, divisione sillabica ecc.) per ottenere una buona qualità metrica di interdipendenza verbale affinché la lettura risulti più compatta e paritetica.
Un esempio positivo è Dolce & Gabbana: nel marchio non c’è Dolce senza Gabbana.
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L’era della percezione