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6 Mag 2013

L’identità d’impresa come leva di business

Con un articolo, pubblicato sul numero di maggio de “L’Impresa” – il magazine del Sole 24 Ore dedicato ai temi del management – il Ceo di Univisual Gaetano Grizzanti spiega il proprio concetto di “Business Identity”.

Il branding è un fattore competitivo capace di consentire la costruzione di una proposta unica e praticamente impossibile da duplicare, una leva strategica che tante eccellenze non possono permettersi di sottovalutare.

Trasformare un marchio in una marca non è un gioco di parole. Oltre a porre l’accento sulla differenza semantica tra i due termini è un imperativo per ogni azienda che deve affrontare un mercato – quello del terzo millennio – completamente rinnovato, con cambiamenti tali da ribaltare la fisionomia dell’impresa mutando ogni modello di costruzione e affermazione.

Il prodotto è importante, certo, ma non più come un tempo. Sappiamo, per esempio, che i bisogni primari nella nostra società sono praticamente soddisfatti: non scegliamo un’auto perché è semplicemente un mezzo di trasporto, bensì per lo status che rappresenta; non compriamo un determinato cibo solo per nutrirci, altrimenti non esisterebbe probabilmente il 90% dei prodotti in commercio; non indossiamo un abito unicamente per coprirci o proteggerci dal freddo. E così via. Quindi se è vero, come è vero, che un prodotto – per avere successo – deve essere immesso sul mercato solo se si è sicuri che possa soddisfare un bisogno reale del mercato, è altrettanto vero che rispetto al passato le esigenze dell’individuo sono inesorabilmente evolute, lasciando spazio a bisogni più reconditi e inconsci.

Inoltre, a complicare lo scenario generale, ogni azienda – di qualsiasi ambito, business-to-business o business-to-consumer – ha competitor sempre più numerosi e agguerriti. Il prodotto quindi non è più in grado di rappresentare da solo questi nuovi paradigmi e consentire una differenziazione credibile rispetto alla concorrenza.
Ogni settore merceologico vanta, purtroppo, un’omologazione sintomatica dell’offerta; ecco allora che la marca d’impresa (corporate brand), quale “prodotto inconscio”, può agire attivamente per incarnare le nuove sfere dei moderni bisogni del cliente. Una marca risponde con più facilità alle ultime richieste del mercato, con l’implicita domanda di considerare gli aspetti più profondi dell’essere umano e della personalità dell’individuo. La marca (brand) è diventata oggi un asset finanziario primario, vitale per il business delle imprese, proprio per questi motivi.

Un brand vale più di mille prodotti
Concorrenza rinvigorita, centralità dei bisogni non primari ed evoluzioni sociali, sanciscono di fatto l’involuzione del prodotto a protagonista secondario nella scena competitiva. Ciò naturalmente non significa che le caratteristiche fisiche e funzionali, come la sicurezza e il design – quali requisiti oggi considerati assodati – non siano comunque fondamentali per lo sviluppo di un’impresa. Una marca è identificata sì con il proprio prodotto, ma non solo.

Una marca conferisce infatti il potere di differenziarsi, potenzialmente oltre ogni possibile imitazione, avendo inoltre il compito di trasmettere i motivi di questa differenziazione. È importante però comprendere che il brand non è né il prodotto né l’impresa, ma identifica in una sintesi assoluta il bisogno del cliente, che dovrà essere soddisfatto allo stesso modo di come agiva il prodotto tanto tempo fa ma con contenuti più irrazionali. Per comprendere davvero cosa sia il brand, immaginate di doverlo venderlo (con un discorso, con un annuncio pubblicitario, con una telefonata ecc.) senza dire nulla sul prodotto che rappresenta. Impossibile? Diciamo che non è semplice, però non solo è fattibile ma sarà sempre più importante sviluppare questa mentalità.

Il primo prodotto da vendere di un’azienda
è la propria marca.

La marca non è il marchio
La grammatica e la sintassi dell’identità di marca, qui solo accennata, rappresentano un approccio che vuole anteporre la definizione degli obiettivi all’agire, la prassi alla teoria, cominciando proprio da ciò che si deve fare e da ciò che non si deve fare. Naturalmente non vi è il proposito né l’ambizione di esaurire in poche righe un argomento tanto complesso come questo, ma si vuole proporre con criterio e in modo trasversale un discorso molto attuale, di grande interesse per la competitività locale e internazionale.

Prima di tutto: il concetto “trasformare un marchio in una marca” introduce la differenza di significato che esiste tra i due termini, oltre a voler sollecitare un aspetto tutt’altro che irrilevante per il business moderno:

Tutti possono avere un marchio, ma pochi possono fregiarsi del titolo di marca.

Prima di entrare nel contesto specifico, è necessario esplicitare cosa intendiamo per brand, branding e marchio. Prendendo le distanze dalle classiche definizioni e – per quanto sia possibile – da una noiosa esposizione accademica, indichiamo per brand (in italiano marca e non marchio) l’entità concettuale in grado di riassumere in sé le ragioni emozionali di coinvolgimento da parte del cliente e per branding il modello di business basato su una strategia brand-oriented anziché product-oriented. Il marchio invece, rappresenta sia il soggetto giuridico sia il codice (visuale e testuale) con cui la marca si connota e si propone al proprio pubblico (il logo è una parte del marchio).

Strategia di business
Nonostante oggi il brand abbia il compito di sviluppare capitale economico, la maggior parte delle imprese non ha ancora spostato il proprio asset finanziario dal prodotto al marchio, benché analisti di tutto il mondo abbiano dimostrato quanto un brand valga oggi, cioè spesso molto più del prodotto o del servizio offerto.

Il grande cambiamento è quindi quello di rendersi consapevoli che il primo prodotto da vendere, per un’azienda, è la propria marca. Infatti, come dicevamo, il consumatore si è evoluto e continuerà a mutare in modo perpetuo, come una specie perfettamente adattabile. Siccome un’offerta, per quanto incredibilmente performante, fatica a differenziarsi in un mercato saturo com’è quello attuale, solo una marca – con il suo portato di valori e significati – consente di investire su una proposta distintività in un panorama straripante di competitor.

Agire in termini brand-oriented non è quindi solo un’opportunità di crescita né una pratica esclusiva per grandi multinazionali (anzi, per la piccola impresa che non può permettersi di investire capitali in pubblicità, è l’unica risorsa utile), ma è determinante addirittura per la sopravvivenza, specialmente di tante realtà che devono competere – per esempio – con i mercati emergenti, contro i quali una guerra al prezzo rischierebbe di essere già perdente in partenza.

Pensiamo a numerose e sconosciute aziende produttrici del nostro Paese, cresciute negli anni grazie all’eccellenza del prodotto; oggi sono proprio il punto di riferimento di quelle aree merceologiche minacciate dai prodotti orientali che, con offerte aggressive (ma molto presto anch’esse di qualità), attaccano il mercato italiano ed europeo: parliamo di migliaia di floride aziende nazionali che rischiano di perdere quote e quindi di fallire.

Cosa fare? Il branding può essere quell’arma competitiva capace di consentire la costruzione di una proposta unica, praticamente impossibile da duplicare, dotando un prodotto o un’azienda di quella personalità necessaria per renderle differenti. Trasformare il proprio marchio in una marca diventa oggi il modo migliore per guardare al presente e al futuro con più sicurezza.

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