3 Giu 2013
di Gaetano Grizzanti
Quando si concepisce un’impresa è necessario definirne l’identità da porre sul mercato e sviluppare una funzionale brand identity, dal nome dell’azienda all’architettura della marca
Cominciamo con un’ovvietà: avviare oggi una nuova azienda, o revisionare una azienda esistente, è tutta un’altra storia rispetto a solo dieci anni fa. Sono cambiate tante cose, dai modelli di consumo a quelli organizzativi. Concentriamoci, in questo contesto, su un aspetto in particolare, probabilmente uno tra i più importanti: la centralità dell’offerta.
Per emergere in un periodo economico difficile come quello attuale è necessario individuare il modo per distinguersi dagli altri. Purtroppo, facendo leva su una strategia di business basata solo sul prodotto (o servizio) si rischia un approccio al mercato già perdente ancor prima di iniziare, offrendo il fianco alla concorrenza globalizzata caratterizzata da una guerra sul prezzo senza precedenti.
Quello che stiamo vivendo non è un periodo di crisi, ma deve essere letto come una specie di nuova era glaciale: si assiste infatti a un vero processo evolutivo, con imprese destinate a estinguersi e altre invece capaci di adattarsi al nuovo “clima”.
Chi sarà in grado di mutare geneticamente la propria mentalità, non solo sopravviverà, ma getterà le basi per cogliere i frutti che questi nuovi scenari proporranno. L’albero che bisogna seminare è la “marca” (o brand), un’entità che viaggia in parallelo con il prodotto e per conto dell’azienda, in modo preponderante e incredibilmente autonomo rispetto al prodotto e all’azienda stessi.
Per comprendere meglio questa epoca rivoluzionaria, occorre concentrarsi su un concetto basilare: la marca non è il marchio e i suoi valori non devono coincidere con quelli del prodotto o dell’azienda.
Per creare un brand, il primo passo in un ideale processo di sviluppo è, quindi, costituito dall’acquisizione cognitiva di questa prima regola, la quale genera il nuovo archetipo della cultura d’impresa: la marca, a parità del percepito sulle peculiarità di un’offerta, costituisce l’unico valore aggiunto di un prodotto/servizio.
Ciò avviene perché, oggi, non può più essere convincente una dichiarazione esplicita sulla propria bravura o qualità: il sistema per vendere i pregi di una proposta commerciale si basa essenzialmente sulla capacità di porsi in maniera differente dai competitor. Essere percepiti dal cliente come diversi è, pertanto, il fattore critico per il successo di un’azienda del terzo millennio ed è fattibile solo attraverso la propria marca che, per osmosi, rende unici e colmi di significato i prodotti a essa collegati. Puntare solo sul prodotto è come giocare d’azzardo, con tutte le peripezie del caso.
COME SVILUPPARE UNA BRAND IDENTITY
Il processo di sviluppo di una brand identity si snoda in tre macro-step: Brand Identity Strategy; Brand Identity Creation; Brand Identity Application. Vediamone i tratti salienti.
Prima fase
La prima fase (consigliabile che avvenga prima di incaricare il notaio per l’atto costitutivo) ha lo scopo di definire, dal punto di vista strategico, le corrette modalità identificative con cui il brand – che rappresenti un prodotto/servizio, un’impresa o un qualsiasi altro tipo di organizzazione – deve porsi nel proprio mercato.
Per giungere alla formulazione della “strategia di identità”, come out-put finale di questa prima fase, si opera prima di tutto con una puntuale attività di Brand Analysis, mirata sia alla razionalizzazione della business-idea per estrapolare in senso critico i fattori chiave dell’offerta e dell’azienda, sia alla valutazione dello scenario competitivo dal punto di vista del branding. Dopodichè si procede con lo sviluppo della Brand Architecture, cioè la strutturazione – dal punto di vista identificativo e gerarchico – dell’insieme delle entità istituzionali e/o di prodotto di un’impresa o di un gruppo di imprese, individuando il modello di branding con cui presentarsi e proporsi sul mercato.
I modelli di identità standard a cui attingere, per l’organizzazione di un business, sono: il modello “monolitico” (brandizzare la totalità della propria offerta con un solo marchio. Es. Yamaha), il modello “multiplo” (utilizzare marchi differenti per le rispettive differenti tipologie di offerta. Es. Unilever) e il modello “derivato” (utilizzare lo stesso marchio, detto “endorser”, declinato per ogni business del gruppo. Es. Eni).
A chiusura della prima fase, è giunto il momento di individuare la Brand Equity, cioè il cosiddetto patrimonio valoriale della marca. In pratica è l’insieme dei concetti e dei significati che definiscono la personality con cui presidiare il “territorio mentale” degli stakeholder. La brand-equity è fondamentale, perché guiderà il cammino della marca – quindi dell’azienda – per tutta la sua vita. Dall’insieme dei valori che si decide di sostenere, scaturiscono la vision, la mission, il comportamento dei dipendenti e – infine – gli obiettivi strategici del marchio. Infatti è determinante stabilire a priori quale deve essere il compito di comunicazione che il marchio dovrà svolgere, al fine di imporre il suo ruolo nel sistema della marca.
A tal proposito ecco un primo suggerimento: il nome e il logo non devono descrivere il prodotto né spiegare cosa fa l’azienda, altrimenti si confonderanno in mezzo a tanti e non serviranno granchè.
Seconda fase
Una volta che sono state definite le direttive strategiche da perseguire, si può procedere con la fase di creazione del linguaggio della marca, in primis il marchio (con i suoi codici connotativi principali: il nome e il logo) e quindi le linee guida per la sua implementazione al sistema di comunicazione istituzionale e commerciale.
Il primo step, che chiamiamo Brand Naming, riguarda la scelta del nome da dare all’azienda (o al prodotto). Qui è in gioco una parte molto critica del tutto. Il nome giusto può aiutare molto l’azienda nel suo non facile percorso, un nome sbagliato è spesso un freno inibitore – sia per una start-up sia per lo sviluppo futuro – e fonte di guai o di spreco di denaro. Il mercato è teatro di aziende che, a causa del nome, fanno molta fatica a entrare in determinati settori o che non sono riusciti a rendere credibile aree di business diverse rispetto alle originali. Il naming è un aspetto tenuto poco in considerazione: uno degli errori più frequenti è credere, sciaguratamente, che debba, in modo diretto, indicare il prodotto o la sua peculiarità principale.
Individuato il nome, si procede allo step che definiamo Brand Design. Il logo, purtroppo, è spesso relegato a suppellettile, invece può diventare un dispositivo di business se sarà in grado di coinvolgere il suo pubblico, agendo sull’emotività e sull’originalità. Per esempio, una nota azienda di computer ha adottato come marchio una mela morsicata. Cosa collega questo simbolo con il settore dell’informatica? Proprio nulla, ma si connette perfettamente alla sua visione, anticonformista e provocatoriamente innovativa. Progettare un marchio non è solo uno sforzo creativo o un’opera semi-artistica di un disegnatore estemporaneo, bensì un lavoro da accreditare a un progettista professionista specializzato in marchi e marche. Basti pensare, per esempio, alla cultura del carattere tipografico (dal punto di vista del design) o alla materia giuridica di competenza (dal punto di vista legale). Ed ecco un secondo suggerimento: si sconsiglia di affidare il design del marchio a un creativo pubblicitario che, per quanto professionista dedito alla comunicazione è raramente competente in materia di marchi e brevetti.
L’ultimo step di questa fase è relativo alla Brand Expression, cioè la profilazione del tono di voce con cui la marca dovrà rendere tangibile la sua personalità. Significa definire il carattere con cui esprimersi “verbalmente” (stile della scrittura e dei messaggi testuali); “visivamente” (impronta grafica e trattamento delle fotografie); “sonoricamente” (audio-logo e sottofondi musicali delle sedi, stand fieristici ecc.). Insomma, è come studiare un personaggio di un film che deve coinvolgere contemporaneamente tutti i sensi del pubblico di riferimento.
Terza fase
Il processo di sviluppo di una brand identity si chiude con la fase di implementazione e normalizzazione del sistema di identità visiva. Comprende la Brand Stationery, cioè lo sviluppo coordinato della modulistica di cancelleria istituzionale e lo sviluppo delle linee guida per la Brand Communication, cioè lo studio dei format della documentazione stampata (monografie istituzionali; brochure di prodotto; cataloghi; leaflet; depliant ecc.), degli annunci pubblicitari (stampa, affissioni, cartellonistica ecc.) e delle logiche di presenza nel Web (sito istituzionale; banner; e-commerce; social network ecc). L’obiettivo è mantenere una ferrea coerenza in ogni performance del marchio, ovunque questo venga applicato.
Quest’ultima fase si conclude, dal punto di vista produttivo, con la realizzazione del Brand Manual, cioè il documento che renderà fruibile le norme da seguire per il corretto utilizzo della brand identity. Una sorta di “iso-9000” che consente di preservare l’immagine della marca e quindi dell’azienda o prodotto a essi associata.
Conclusioni
La definizione della brand identity rischia, nel tempo, di essere vana se non vi è un suo costante coordinamento, monitoraggio, gestione e manutenzione, attraverso – per esempio – un’attività formativa per l’addestramento sull’utilizzo della nuova identità sia per il personale interno dell’azienda (Management Direzionale e Finanziario, Area Commerciale, Marketing/Comunicazione, Human Resources ecc.) sia per partner e collaboratori esterni coinvolti nella gestione della marca.