Questa consuetudine è ancor più diffusa in quelle aziende che non si rivolgono al consumatore finale, ma ad altri utenti – come imprese o istituzioni – e ciò che conta sono i brand che rivendono, la loro notorietà o il loro percepito di qualità riconosciuto dal cliente. Un dealer, quindi, non valutando la propria identità di impresa come un asset strategico, si ritrova a far leva sul prezzo. Una visione – o, per meglio dire, una scorciatoia – che sovente, in termini proiettivi, si rivela miope e rischiosa.
Un rivenditore si accorge di questa carenza quando si manifesta il problema e, spesso, quando è troppo tardi. Per esempio, la politica di prezzo come leva commerciale, si rivela presto un mezzo molto debole per competere. Il prodotto risulta indifferenziato, la marca rivenduta è la stessa proposta da altri e, per quanto si possa compensare con la qualità del servizio, il cliente riterrà lo sconto come l’unico elemento di scelta.
Per superare questa condizione, il primo passo è quello dell’autoconsapevolezza: ammettere cioè di avere un problema che non potrà più essere risolto grazie al prodotto e al servizio, bensì solo puntando sul proprio nome. Attivando infatti un intervento di brand identity, da una parte, si avvia il processo di capitalizzazione di quegli asset che un dealer mette in campo ogni giorno – un buon rapporto qualità/prezzo, un servizio eccellente, la relazione con i clienti – e, dall’altra, si opera su una mentalità che deve reputare il proprio marchio più importante di quelli rivenduti.
Innanzitutto per essere previdenti, perché un domani la competitività commerciale potrebbe ridursi, a causa per esempio di un nuovo player che con un listino prezzi ancora più aggressivo invade il mercato. Investire in una “trasformazione del proprio marchio in una marca” non solo è possibile anche per un dealer – come è avvenuto in passato per i retailer – ma si paleserebbe sia con una capacità maggiore di sopravvivere nel mercato, sia attraverso lo sviluppo di un’offerta di prodotto a marchio proprio più credibile.
Gli effetti, spesso già solo dopo sei mesi o un anno dall’attivazione del programma, sono una crescita della fiducia del cliente – riducendo in breve tempo la dipendenza dai fornitori e dai brand rappresentati – e un aumento del potere di acquisto, con conseguente incremento della media dei margini.
In generale, attivare il processo di riconoscimento del proprio marchio è un investimento in grado di attribuire valore all’impresa che, a sua volta, genera un reale valore aggiunto su tutto il sistema di offerta e sulla forza vendita (i primi ambasciatori per un dealer nei confronti del cliente).
Ma il più grande risultato è il miglioramento del percepito di differenziazione che si crea nei confronti della concorrenza. Automaticamente i brand che un dealer rivende non ricopriranno più l’importanza che avevano prima e ci si potrà permettere di proporre altri prodotti, su cui poter ottenere un mark-up maggiore e un legame più duraturo con il cliente, il quale si fiderà prima di tutto del nome del rivenditore divenendo un partner operativo a tutti gli effetti.
Univisual nella sua storia ha lavorato con diversi distributori, sia retailer operanti al dettaglio – come Salmoiraghi & Viganò o Cattolica Assicurazioni, con la sua rete agenziale – sia dealer operanti attraverso reti di vendita business-to-business.
Per rimanere in ambito dealer, Univisual ha seguito di recente l’azienda leader in Italia nella fornitura di prodotti per ufficio. È stato fatto un lavoro per capitalizzarne il nome attraverso una strategia orientata al marchio, ottenendo in meno di un anno una crescita del 12% della marginalità.
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