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Quando l’eccellenza non emerge: il ruolo del branding B2B

In molte aziende business-to-business italiane il valore non manca: tecnologia all’avanguardia, processi rodati, presenza digitale, rete vendita motivata. Eppure, non è raro che tutto questo resti “dietro le quinte”, invisibile agli occhi di chi deve scegliere un partner o valutare l’affidabilità. Non per mancanza di competenza, ma per una identità d’impresa non all’altezza del suo ruolo.


Per chi guarda al branding non come un ornamento, ma come leva per generare un percepito di differenza e qualità, è importante analizzare ostacoli concreti che molte realtà b2b incontrano ma anche il potenziale che si libera quando si decide di costruire un’identità forte e cosa fare per trasformare ciò che già funziona in un marchio funzionale.

Molte aziende italiane eccellono per competenza tecnica e qualità operativa, ma non sempre riescono a trasformare questa eccellenza in percezione reale. È il paradosso del “valore invisibile”: ciò che funziona bene rimane confinato nei processi, senza diventare evocazione coinvolgente.

Secondo i dati più recenti dell’Osservatorio B2B Digital Commerce & Experience del Politecnico di Milano, il valore delle transazioni digitali di prodotto nel B2B ha raggiunto 278 miliardi di euro nel 2024 (+5% rispetto al 2023). Eppure, queste transazioni rappresentano soltanto il 22% (¹) del totale del transato B2B. Tre grandi aziende su quattro si trovano ancora nelle fasi iniziali di un approccio “cliente-centrico”, mentre solo il 14% (²) ha raggiunto una maturità avanzata.

Lo studio “Branding e Aziende B2B” (³) condotto da UPA / Politecnico di Milano evidenzia un dato significativo: oltre il 60% delle aziende del campione dedica meno del 5% del fatturato a marketing e comunicazione. E il 68% spende meno del 30% del budget marcom in attività dedicate alla costruzione del brand.

Molte realtà si trovano di fronte a barriere culturali e strutturali difficili da superare. La prevalenza della logica ingegneristica sull’identità, il timore di “esporsi” con una narrazione originale, la percezione del branding come costo e non come investimento, la mancanza di strumenti per misurare la percezione del brand e la scarsa condivisione interna sulla sua rilevanza, sono fattori che frenano la crescita.

Il risultato è semplice da intuire: non è che non ci sia valore, è che quel valore non si pone in modo corretto, con coerenza e riconoscibilità.

 

Cosa succede quando l’identità diventa protagonista

Quando un’azienda b2b decide di creare un’identità forte, capace di emozionare e distinguere, la sua presenza nel mercato si trasforma. Prospect e clienti cominciano a vedere non solo il prodotto o il servizio, ma la personalità e l’esperienza dell’emittente.

Ogni touchpoint del brand diventa parte di un disegno unico, non semplicemente un’azione isolata.

L’identità agisce come collante tra efficienza operativa e percezione di valore: aumenta l’autorevolezza, favorisce la fidelizzazione, riduce la competizione unicamente sul prezzo.

Un’impresa che produce componenti industriali, per esempio, quando racconta la propria storia di innovazione diventa più attrattiva anche per talenti e investitori. Allo stesso modo, un’azienda che integra la propria identità nel customer service trasforma un contatto tecnico in una manifestazione di fiducia. In entrambi i casi, un’azienda b2b smette di essere “una alternativa” per diventare “la scelta preferita”.

Il brand comincia a emergere non solo dove l’azienda è già conosciuta, ma anche nei contesti nuovi: fiere, mercati esteri, gare, proposte competitive. A parità di offerta tecnica, chi fa leva sulla propria identità d’impresa ha più chance di essere selezionato.

Le risorse di comunicazione, invece di disperdersi, si rafforzano reciprocamente: ogni post sui social-network, evento, messaggio, contatto vendite, diventa un tassello della stessa storia. Non si tratta solo di reiterare comportamenti, ma di far sì che chi incontra l’azienda avverta continuità e autenticità.

Si costruisce valore reale. Non solo nella qualità, ma nella fiducia che quel brand trasmette. Una promessa ben rappresentata è più difficile da scalzare: in momenti difficili, crisi o concorrenza aggressiva, chi ha un brand forte resiste. E, specifichiamolo, un brand forte non significa un brand famoso.

Un brand è forte se ha determinate caratteristiche fisiologiche ed emotive, attraverso un costrutto tecnico che unisce strategia e creatività, design e neuroscienze.

 

«Un marchio può trasformarsi in una marca anche per un brand b2b»

 

Un brand forte convince investitori, partner, collaboratori e anche l’opinione pubblica se opera con un’adeguata visibilità sui rispettivi territori. Investendo nell’evoluzione della propria brand identity con metodo – e non solo in campagne di comunicazione – può iniziare a misurare come quel valore cresce nel tempo, dimostrando che l’identità per un’impresa non è un costo da giustificare, ma un asset da valorizzare.

 

Le leve per attivare questa evoluzione

Per attivare questo salto, non basta volerlo: serve intervenire con un processo pertinente a ogni caso, con una visione condivisa tra il management direzionale. Serve che il costrutto del brand non rimanga confinato al marketing, ma passi attraverso ogni dipartimento, dalla gestione alle operation, dalla rete commerciale al servizio post-vendita.

Serve che i dati non vengano solo raccolti ma usati per capire ex-ante come il brand è percepito: cosa ricordano i clienti, quali emozioni vengono associate, quanta coerenza emerge tra le promesse fatte e quelle mantenute.

 

Tre fattori critici:
1
Governance del brand:
chi lo presidia e come si integra nel piano industriale.

2
Misurazione della percezione:
survey, reputation index, feedback strutturati per capire la percezione dei clienti e quali emozioni evoca il marchio.

3
Cultura interna:
il brand come leva strategica, non come logo o comunicazione.

 

 


(¹) Fonte Engage
(²) Fonte Osservatori Digitali PoliMi
(³) Branding & Aziende B-to-B

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